November, recensione: come si racconta il terrorismo al cinema?
Come si racconta quanto avvenuto al Bataclan il 14 novembre 2023? Non è una domanda retorica che punta a tirar fuori la solita questione di ciò che non è raccontabile al cinema, l’orrore inesprimibile e ciò che è inenarrabile. Anzi, è proprio l’opposto: siccome tutto è raccontabile al cinema, a patto di trovare qualcuno disposto a metterci i soldi e la faccia per farlo, il punto è proprio: come farlo?
Il regista Cédric Jimenez ha una risposta molto, molto precisa a riguardo, che si allinea un po’ con il consenso generale che il cinema sembra aver raggiunto in merito al girare film su attacchi terroristici recenti di matrice islamica.
Non c’è quasi strage, attacco terroristico o episodio di cronaca nera della storia recente, per quanto efferato o traumatizzante, che non sia già arrivato al cinema o non sia in procinto di farlo. Lo spartiacque rispetto a un prima che richiedeva un lungo periodo di gestazione e accettazione e un oggi in cui anche eventi del genere entrano velocemente nel circuito artistico e commerciale dell’intrattenimento è stato l’attentato alle Torri Gemelle, su cui a oggi esistono più film e documentari.
Ricordo distintamente che quando dopo il 2009 si cominciò a parlare di rispettosissimi film in merito a quanto avvenuto 11 settembre 2001, la reazione fu di shock per la velocità con cui quest’ipotesi veniva anche solo contemplata. Da quanto avvenuto al Bataclan e dintorni in quella notte di Parigi sono passati solo 7 anni, eppure Cédric Jimenez sembra quasi in ritardo su una tabella di marcia inevitabile.
In epoca in cui la domanda non è se sia lecito fare un film ma quanto tempo lasciare passare per poter pensare di guardare ai fatti con distanza, distacco, obiettività (o forse per poterla fare franca senza troppe polemiche) la risposta sembra essere diventata: un quinquennio, a patto di veicolare visivamente e a livello narrativo un’impressione di sobrietà spartana, di rigore narrativo e visivo che sa di luttuoso, una compostezza che somiglia a quella con cui, a schiena diritta, gli spettatori non familiari presenziano a funerali molto dolorosi.
Cédric Jimenez condivide in pieno questa visione nel suo racconto degli attacchi del Novembre 2015 nel cuore di Parigi, della Francia, dell’Europa. Il suo November – i cinque giorni del Bataclan segue fino all’estremo questa linea guida, finendo con il suo silenzio per veicolare un messaggio non così inaspettato, in maniera forte e chiara.
Continua a leggere la recensione di November – i cinque giorni del Bataclan:
- Di cosa parla November – i cinque giorni del Bataclan
- Cosa funziona e cosa no in November – i cinque giorni del Bataclan
Di cosa parla November – i cinque giorni del Bataclan
Diviso in cinque capitoli, ciascuno dedicato a una giornata di lavoro, November sceglie di narrare gli attentati al Bataclan e ai café parigini da un punto di vista molto specifico e pragmatico.
Il film è ovviamente basato sulla cronaca di cinque giorni terribili per la Francia, ritrovatasi a piangere centinaia di persone nel giro di una notte, con il presidente Holland che annuncia in diretta TV misure eccezionali per evitare altri attentati e due autori della strage principale in fuga.
Torniamo al come di prima perché non è una domanda da poco: come si mostrano centinaia di persone falcidiate da un commando di terroristi, come si mostra un locale di musica che dopo gli spari è ricolmo di centinaia di corpi senza vita e di sopravvissuti che si fingono morti mentre i terroristi se ne vanno? Logisticamente è una scena costosa da realizzare.Inoltre è un campo minato in cui le buone intenzioni possono velocemente condurre a offendere la sensibilità pubblica, mancare di rispetto a chi ha vissuto quell’esperienza o ben di peggio.
La risposta più semplice è: non mostrare nulla, raccontare quanto succede, lasciando che il ricordo di quelle ore nella memoria dello spettatore faccia il resto. Così come nella tragedia greca si parla di morti drammatiche ma per pudore e rispetto la maggior parte delle volte il corpo senza vita del protagonista non appare in scena, così in November s’intravede un solo cadavere: quello di un cane poliziotto, caduto nel conflitto con i terroristi in fuga.
Cédric Jimenez poi i corpi non li mostra, verrebbe da dire, perché l’intero attentato è funzionale a raccontare ciò che davvero gli sta a cuore. Il film infatti non ricostruisce il prima o il mentre, ma il dopo. Si concentra sui cinque giorni di caccia all’uomo che seguirono quanto avvenuto al Bataclan.
Basato su quanto raccontato dalle cronache e dagli stessi inquirenti, November ricostruisce l’azione congiunta di polizia, squadre speciali e Servizi segreti che in cinque giorni trovarono e uccisero in uno scontro a fuoco i responsabili dell’attentato.
Cosa funziona e cosa no in November – i cinque giorni del Bataclan
Non c’è un vero e proprio protagonista del film, che si configura più come un racconto collettivo poliziesco. A guidare le danze c’è il solito, solidissimo Jean Dujardin nei panni del commissario Fred, che coordina varie delle squadre sul campo, affiancato da volti familiari del cinema francofono come Sandrine Kiberlain, Jérémie Renier e Anaïs Demoustier.
Fred apre e chiude il film con un discorso informativo e motivazionale ai suoi uomini sul da farsi. In mezzo c’è un lavoro d’investigazione concitato ma al tempo stesso sussurrato da parte dei vari gradi della polizia e dell’Intelligence.
La prima scena di November il tentativo fallito di cattura di un latitante ad Atene che si rivelerà poi un uomo chiave di quanto successo. Fred era andato ad Atene per tentare di catturarlo e lo ha visto svanire. Ci si aspetterebbe una spiegazione su come quel fallimento abbia portato a questo attacco, un gesto di frustrazione, un alterco, un crollo emotivo. Non arriva niente di tutto questo e anzi: di umano nei protagonisti di November c’è pochissimo. Le loro vite private, le loro necessità biologiche (mangiare, dormire, lavarsi) vengono spinte da parte dal film con una decisione tale da dare l’impressione di assistere a un racconto celebrativo, anche se la fanfara non c’è.
La forma ricorda il documentario, un taglio realistico e da girato sul campo o nel dietro le quinte: tanta camera a spalla, una capacità lodevole di seguire con chiarezza e senza fronzoli l’azione delle squadre speciali impegnate in perquisizioni, inseguimenti e conflitti a fuoco. Azione a parte è un film fatto di telefonate, ricerche sul computer, sfogliar di fascicoli. D’altronde non c’è niente di più noioso del lavoro d’investigazione che porta qualcuno sulla pista giusta, eppure il poliziesco è uno dei generi più amati al cinema.
Solitamente però a coinvolgerci sono le storie personali degli agenti protagonisti, unitamente alla specificità del loro lavoro. Rimanendo nell’ambito dell’Intelligence, un ottimo esempio recente in questo senso è la serie Apple Slow Horses (che via ho già consigliato nella recensione dedicata). In tutto November però l’umanità dei poliziotti è raccontata in appena una manciata di minuti: una breve inquadratura sul cartone della pizza ormai fredda, qualche uomo addormentatosi sulla scrivania, lo scrupolo di coscienza che l’agente Inés (Anaïs Demoustier) dimostra di avere a fine film.
Un silenzio può essere esplicito come mille fanfare e discorsi retorici. Con uno stile che si rifà allo stile di Zero Dark Thirty di Catherine Bigelow e 22 luglio di Paul Greengrass, il regista di November costruisce una silenziosa ode al Sistema, al braccio armato della legge, dipingendolo come un formicaio, un ingranaggio efficiente in cui fatica ad emergere l’individualità e la fallacità del singolo.
Il film si guarda bene dall’esprimere giudizi di merito sull’altro lato della barricata, dando anzi una certa rilevanza alla fonte che condurrà gli inquirenti sulla pista giusta, mettendo a rischio la sua vita. Se l’inizio di November è vertiginoso, il finale lascia scettici. In avvio sentire i poliziotti raccontarsi al di fuori degli stereotipi cinematografici cosa sta succedendo, con voci sussurrate mentre la conta delle vittime sale e gli uffici che si riempiono di agenti rientrati fuori dal proprio turno, mette i brividi.
Tanta efficienza senza mai un crollo, un dubbio, senza mai alzare i decibel o perdere la pazienza in ultima istanza racconta soprattutto della fede cieca, assoluta nel Sistema di chi questo film l’ha scritto e girato. Ricorda un po’ quel cane poliziotto che si tuffa tra gli spari per fare il suo dovere, morendo. Non c’è un’oncia di eroismo nel modo in cui viene ritratto, ma è la sua efficienza incrollabile a sottintendere l’elogio. La sobrietà ostentata con cui il film tenta di rendere più anonime le sue star più avvenenti (tingendo di scuro i capelli di Demoustier, rapando a zero la celebre bionda chioma di Renier) che tradisce come November, più che una cronaca, sia un ideale.
Il mio consiglio è di vederlo, perché ne vale la pena, ma poi tornare a casa, aprire Netflix e guardare Beckett, film ambientato ad Atene che esplora argomenti simili ponendosi dall’altro lato della barricata. Il balzo è vertiginoso e aiuta a mettere a fuoco entrambi i film.