Air, recensione: come rendere inoffensiva una grande storia di sport e marketing
Air (in uscita in tutti i cinema il 6 Aprile) è un film che vuole fare tante, tantissime cose. Riesce a depennare quasi tutti i suoi punti della sua lunghissima lista di cose da fare e a suo modo è impressionante. Soprattutto perché molti obiettivi di questo film sono in contrapposizione, anzi, in aperta contraddizione tra loro.
Come si può fare un film che tenta di essere al contempo l’esaltazione di uno dei talenti sportivi più fulgidi mai vissuti e il racconto di come quello stesso atleta sia diventato l’icona di un capitalismo che stampa la sua luccicante immagine americana su scarpe prodotte a basso costo in Corea?
Il tutto, sia chiaro, in un’ottica assolutamente positiva: quella di Air – Il grande salto è una storia imperniato di win – win, di vittorie senza sconfitte. Un mondo ideale in cui il vecchio sospetto ex nazista fondatore dell’Adidas Adolf, pardon Adi, è l’unico a perdere ma poco male, dato che è già morto a metà del film.
Se questo doppio ritorno di Ben Affleck dietro la cinepresa e al fianco dell’amico Matt Damon davanti alla cinepresa può insegnarci qualcosa, è la potenza dell’identità statunitense. Nonostante la disillusione che la circonda, è ancora capace di tenere insieme opposti inconciliabili: la purezza dello sport e l’affarismo del capitalismo, l’importanza delle storie afroamericane dimenticate coadiuvate da un film a trazione bianca.
Se c’è una cosa che il ritorno di una coppia potente e amata come il sodalizio artistico e umano tra Affleck e Damon dimostra è che Hollywood poco è cambiato, al di là di un professare buone intenzioni e cospargersi il capo di cenere.
Continua a leggere la recensione di Air – Il grande salto:
- Di cosa parla Air- Il grande salto
- Perché Air – Il grande salto è un film ipocrita
- Cosa non racconta Air della storia delle Air Jordan
Di cosa parla Air- Il grande salto
Air si propone di raccontare il mito di Michael Jordan, uno dei più grandi giocatori di pallacanestro e atleti statunitensi di tutti i tempi, in un’ottica inconsueta. La pellicola infatti non è incentrata né su Michael né sulla sua ascesa sportiva, quanto sullo storico accordo che il giocatore siglò con la Nike poco prima di debuttare nell’NBA.
Spiegare oggi cos’era la Nike negli anni ‘80 è uno dei lavori più complicati di un film che punta proprio a rendere evidente. Jordan ha traghettato una giovane azienda produttrice di scarpe per la corsa nell’olimpo dei marchi sportivi più noti a livello universale.
Dopo un breve montaggio di musiche e immagini con la caratteristica grana da girato in pellicola che restituiscono il mood sportivo e culturale degli anni ‘80, veniamo introdotti dentro la sede principale della Nike del 1984. L’azienda si è appena quotata in borsa, ma è ancora lontanissima dall’essere la multinazionale che conosciamo oggi. La sua sede principale è in Oregon e, con grande frustrazione di agenti e uomini d’affari newyorkesi, non ha nemmeno una sede nella Costa Est.
Nike sta vivendo un momento critico di cambiamento e di crescita, che può portare alla perdita della sua identità. A fondarla è stato Philip Knight (Ben Affleck), divenuto poi CEO dopo la quotazione in borsa. Amante della meditazione, della corsa e delle discipline orientali, Knight viene più suggerito che raccontato. Il punto infatti non è come sia nata Nike come azienda.
Qui entra in gioco Sonny Vaccaro (Matt Damon), protagonista putativo della pellicola. Siamo nel 1984 e Nike è leader del settore di scarpe da corsa. La sua quota di mercato è del 17%: una fetta irrisoria, comparata a quella dei giganti Converse e Adidas. Sonny è un guru della pallacanestro, un talent scout capace di individuare i campioni di domani quando ancora giocano nei tornei liceali. Il suo compito è quello di fare in modo che firmino un contratto per indossare le Nike dentro e fuori dal campo.
Non è un compito facile. Se il mondo “bianco” della corsa è a monopolio dello swoosh di Nike, la pallacanestro, seguitissima anche dalla popolazione afroamericana, considera il marchio roba da sfigati bianchi. Come viene detto nel film i neri “non corrono per 42 chilometri senza un motivo…verrebbero scambiati per ladri!”.
Vaccaro intuisce due cose: che Michael Jordan diventerà una fuoriclasse e che Nike per mettere stabilmente un piede nella porta della pallacanestro, deve investire tutto il suo budget di 250mila dollari in un ingaggio con il giovane atleta nero.
Segue il film che ci racconta il come di una storia di cui sappiamo la conclusione: Nike ingaggia Jordan, viene creata la linea Air Jordan, il successo è tanto e tale che Nike si compra Converse nel 1997 e diventa un gigante mondiale del settore sneakers e abbigliamento sportivo.
Perché Air – Il grande salto è un film ipocrita
Vedere Air in Europa è un’esperienza diversa rispetto a guardare il film con occhi statunitensi. Air è una storia intrinsecamente statunitense, di quella nuova americanità neocapitalista forgiata proprio negli anni ‘80, con l’ascesa di Ronald Reagan.
Non che Air si avvicini mai ad essere un film anche solo vagamente politico. È un aggettivo forte, ma mi sento di spenderlo: Air, pur gradevole e divertente, è un film ipocrita, nel senso che dissimula le qualità negative della storia che racconta. Una storia che, tra i temi che affronta, vede proprio quello del razzismo.
Air infatti è un racconto di rivincita afroamericana raccontata da una cornice di uomini bianchi che, alla fine, ottengono quello che vogliono. Nella narrazione 2023 di fatti degli anni ‘80 questa vittoria passa per una serie di scenette imbarazzanti in cui i protagonisti bianchi dimostrano la propria incapacità di rapportarsi ai personaggi afroamericani, senza però mai diventare razzisti, anche inavvertitamente.
Il razzismo è qualcosa d’inconsequenziale e lontano che esiste ai margini di Air così come gli alberi secolari che circondano la casa dei Jordan da generazioni. Svolge un ruolo chiave nella pellicola Viola Davis nei panni di Deloris Jordan, la madre di Michael. Quella che “porta i pantaloni”, perché Air è anche un film intrinsecamente maschile e tenta di mascherare questo fatto facendo dare risposte pungenti a una segretaria non-segretaria e impedendo agli altri personaggi di rispondere a tono a Deloris.
Deloris è una madre amorevole, la prima fedele della religione Jordan e un’affarista sopraffina che convince Nike ad accettare una ripartizione dei profitti che renderà milionaria la sua famiglia. È un personaggio potenzialmente strepitoso che racconta di come, per esempio, per gli afroamericani di quella generazione il modello di successo sia ottenere ciò che i bianchi hanno come fanno i bianchi. Quando Deloris parla dei “poveri giovani afroamericani che spenderanno lo stipendio di due intere settimane” per comprare un paio di scarpe con sopra il nome del figlio lo fa in termini nobilitanti. Non si affaccia mai il dubbio che spendere una cifra importante per comprare un pezzetto del sogno americano stampato su pelle in Corea sia in qualche modo qualcosa di controproducente, anche se quel pezzetto di sogno è nero.
D’altronde Michael Jordan, il suo genio e i suoi scandali, sono qualcosa che vive così lontano dal film da apparire a flash, per questioni di secondi. Michael stesso mai viene inquadrato, dice un paio di parole: è già un’icona, l’eletto. Il che è potenzialmente interessante perché questa è una storia di affaristi bianchi che creano profitto sul talento sportivo di un giovane nero, tentando di vendere a neri e bianchi un pezzetto della sua identità.
Cosa non racconta Air della storia delle Air Jordan
Un scarpe è solo un paio di scarpe finché Jordan non le indossa: Air ci racconta come si è creato valore aggiunto sulla base della percezione e condivisione di un senso d’immortalità e grandezza. Sarebbe strepitoso, se la regia del film, l’uso superficiale di musiche banalissime degli anni ‘80, l’ossessione della sceneggiatura di spiegarci continuamente ogni fatto storico con una frasetta ad effetto (lo swoosh, lo slogan Just Do It, il nome Nike, il nome Adidas e via dicendo) non raccontassero questa storia acriticamente. Non c’è mai un’ombra di dubbio, un po’ di pepe, persino un po’ di cattiveria.
Sin dalla grafica del poster, Air guarda a due grandi film precedenti che hanno tentato di raccontare il capitalismo e la logica del denaro dentro il mondo dello sport e dell’America: L’arte di vincere (2011) di Bennett Miller e La grande scommessa (2015) di Adam McKay. Due titoli magari non così amati e ricordati dal pubblico, ma che hanno influenzato profondamente quasi tutto quello che è venuto dopo in questo filone e non solo.
Air però tenta di riproporre questo modello ma senza cinismo, senza guardare oltre la versione positiva della storia raccontata dai protagonisti. Certo c’è la beneficienza, certo che la rivalsa di un’atleta e una famiglia afroamericana, certo tutte le persone coinvolte e convinte di essere dimenticate diventano di fatto memorabili eroi. Ci sono dei momenti di dubbio, come la storia della ragazzina che vuole incontrare il padre solo per avere un nuovo paio di Nike, ma sotto la superficie ci sarebbe un abisso di contraddizioni da esplorare.
Quanto fa bene questo affarismo legato agli atleti, quanta pressione mette sulle loro spalle? Quanto valore aggiunto dà l’immagine stilizzata di Jordan su un paio di scarpe sovrapprezzate proprio perché portano il suo nome? Arriviamo a oggi, al collezionismo, alle capsule collection e ai prezzi esorbitanti quasi da haute couture, ma senza tutto quello che l’alta moda rappresenta in termini di specificità e artigianalità (almeno supposta). Alla fine la storia di Air Jordan ha contribuito a creare un senso di lusso ed esclusività attorno a un prodotto più vicino al fast fashion che all’alta moda per qualità, ma non per prezzo.
La storia di Air è quella dell’inizio anche di questo trend. Il modo iper-positivo e inoffensivo con cui viene raccontata però, senza mai guardare l’altro rovescio della medaglia, fa il giro. La tentazione è di pensare questo film, da cui Nike esce come virtuosa anche se la cronaca negli anni ha raccontato una storia molto diversa, come un tassello di quella geniale creazione di valore aleatorio e ideologico che la linea Air Jordan rappresenta.
Tra trent’anni forse vedremo un film su come questo film abbia consolidato e ulteriormente rafforzato il valore economico del logo e delle linee Air Jordan. Ci interroghiamo però già adesso dove finisca il lungometraggio e dove inizi un lungo spot celebrativo di Nike.